26 Aprile, 2013 - 1 Commento

EROSIONE. SPENDERE SOLDI E DISTRUGGERE SPIAGGIA

Il Comune di Latina ha reso noto che sono stati sbloccati dalla Regione Lazio i fondi, e quindi la gara, per interventi di rinascimento del litorale del Capoluogo pontino, massacrato da un inverno di mareggiate. In realtà, l’erosione marina ha cominciato, ben prima di queste ultime mareggiate, a svolgere tutte le sue “fisiologiche” funzioni divoratrici, che iniziano da quando sono iniziati nell’area più occidentale (Foceverde) interventi sbagliati. Prima con la scogliera di protezione, poi con il primo “pennello” o scogliera insabbiata in modo normale alla linea di costa. Quella “fisiologia”, ormai nota da tempo, dice che ponendo uno sbarramento ad ovest, sul sito dello sbarramento si crea un qualche deposito di sabbia, ma subito dopo si crea verso est un vuoto che accentua il naturale processo di erosione. Allora, per bloccare questa nuova sottrazione di arenile è necessario costruire un nuovo “pennello” più a est, che ricreerà un qualche deposito di sabbia, ma a oriente del quale si aprirà una nuova falla erosiva. Ed è con questo ritmo che il Lido di Latina sta divorando negli ultimi anni soldi per sempre nuovi “pennelli” e per coprire sempre nuove erosioni, che ormai marciando decisamente verso Capo Portiere e Rio Martino. Proseguendo in questo modo diventa arduo non immaginare che nel giro di qualche anno Latina passerà il testimonio a Sabaudia nella gara di costruire pennelli, incrementare erosione e sperperare soldi E Sabaudia già ha a che fare con il fenomeno, forse proprio a causa di quei “pennelli” posti a Foceverde. Con quali risultati? Uno spreco di denaro, e la trasformazione totale di un litorale stupendo in una catena di scogli. E’ questo che si voleva ottenere?

Già, ma allora cosa si doveva fare? La Regione avrebbe dovuto fare solo una cosa: rileggersi gli studi fatti negli anni Ottanta del Novecento, considerare i positivi risultati ottenuti dal “piano decennale” di rinascimento (morbido), evitare di fare nuovi e inutili (o quasi) studi, risparmiare un po’ di denaro, risparmiare paesaggio e salvare la spiaggia. Più a buon mercato e senza distruggere la linea di costa.
Possibile che ogni volta che ci si imbatte in questo fenomeno erosivo, ormai studiato dal 1964, quando esplose per la prima volta con violenza, si debba ricominciare con studi già fatti e collaudati, e spendere due volte denaro pubblico, come se ne avessimo senza limite? E’ gradita una risposta.
E, intanto, aspettiamo anche che l’astrologo crepi sulle previsioni di nuovi danni ad opera del ”nuovo” porto di Rio Martino.

15 Aprile, 2013 - 1 Commento

MATER MATUTA, LA DEA DELL’OTTIMISMO

Il grande tempio (o meglio, quel che resta) dedicato alla Mater Matuta sorge sulla collinetta in località Le Ferriere di Borgo Montello, comune di Latina, che guarda verso il fiume Astura. E’ stato oggetto di primissimi scavi tra le fine del 1800 e i primissimi anni del 1900, a cura di Bernabei e Mengarelli, poi dalla seconda metà del Novecento a tutt’oggi, a cura dell’ Istituto Olandese di Cultura di Roma, che ha pubblicato anche importanti studi sul sito (da ultimo, Marijke Gnade, direttrice degli scavi). La Mater Matuta è una dea dell’ottimismo, si potrebbe dire; è stata accostata ad altre omologhe divinità pagane (in provincia di Latina, alla dea Marìca, titolare di un tempio, i cui resti sono quasi alla foce del fiume Garigliano, tra l’antica Campania felix e il Latium adjectum. Una dea positiva, dunque, perché ad essa si attribuiscono la potenza e le virtù della nascita umana, del sorgere del sole, della maturazione dei frutti, insomma di tutto ciò che accende nuove forme di vita.
Ad essa Stanislao Nievo, che da queste parti ha vissuto le sua prima giovinezza e si è abbeverato di ormai trascorse passioni, ha dedicato in un suo romanzo del 1979 (Aurora, A. Mondadori, Milano) le seguenti parole, che pare bello ripetere così come sono state scritte, quasi alla vigilia di quella che un tempo fu il suo giorno di festa.
“Mater Matuta, divinità del mattino, l’Aurora figlia della dell’Armonia. Dea del parto. Presiede alla crescita di piante e bambini. La sua festa si celebrava nei Matralia, il giorno 11 giugno. Il culto era affidato solo alle donne sposate. Escluse le schiave. Matuta, reincarnazione della dea greca Ino Leucotea dopo il suicidio nelle onde dello Jonio ( che da Ino prese nome) fu portata sulle rive del Tevere dalle Najadi e qui assalita dalle Baccanti istigate da Giunone mentre celebravano i riti dionisiaci, nel bosco di Stimula sull’Aventino. Salvata da Ercole, fu da questi affidata a Carmenta, madre di Evandro, fondatore del primo villaggio sul Palatino. Carmenta, antica divinità profetica del luogo, ne annunciò il culto a Roma. Compagna del Padre Mattutino grano, madre di Portuno dio fluviale dei porti, Matuta aveva templi a Satrico, Cere, nel Foro Boario a Roma, a Benevento, a Cales a Preneste, quasi sempre collegate agli dei. Per certi aspetti incarnava alcune dee orientali, Cibele, Demetra, e forse Astarte. Il suo nome fu trovato su un altare in Siria. Indicata anche come dea della primavera. Tra le dee italiane è assimilata a Daunia e a Northia Volsinia (pag. 53-54).
“Mater Matuta rappresentava un principio irrinunciabile, che dall’oscurità fertile, porta la luce del mattino. Matuta, da manus, buono maturo, ciò che sta al punto giusto (pag. 56).

6 Aprile, 2013 - Nessun Commento

BREVI NOTE SULLA VITA
DI ALDO MANUZIO BASSIANESE
Parte seconda

L'ANCORA SECCA DI ALDO MANUZIO

Nel 1501 Aldo Manuzio iniziò a stampare le note e splendide edizioni in latino, tra esse quelle dedicate alle opere di Virgilio e Dante, garantendo filologicamente i testi grazie alla collaborazione di uomini dotti come Pietro Bembo, Angelo Poliziano, Barbaro, Valla, Musuro, Gert Geerstsz. Le sue opere, in effetti, segnarono il recupero definitivo di autori come Aristotele, Aristofane, Euclide, Archimede, Tolomeo, Petrarca. Particolare importanza ha l’Hypnerotomachia Poliphili di F.Colonna, con xilografie forse del Mantegna. Scrisse anche due grammatiche, quella latina (Rudimenta gramaticae latinae linguae) e quella greca, quest’ultima uscita postuma. Il primo volume dell’opera omnia di Aristotele fu l’ Organo o Logica, del 1495, èdito in greco, per cui ad Aldo è attribuita “la gloria di essere stato il primo inventore di far gettare in copia i caratteri Greci, ed in quelli stampare delle Opere intere come fece”. In definitiva, fra il 1495 e il 1515 Aldo pubblicò 130 opere in italiano, latino e greco. Nella sua professione, egli tenne costantemente presenti tre aspetti: la bellezza della composizione, il rigore filologico dei testi, la capacità di diffusione dei libri che pubblicava, per garantirsi di che sopravvivere dal punto di vista economico ed assicurare, contestualmente, che la maggior circolazione del libro producesse anche più diffusa cultura. Ai caratteri, che, come s’è detto, furono la prima straordinaria novità presto adottata, affiancò altre innovazioni: curò la grazia estetica della pagina a stampa, attraverso figure e fregi che la ornavano e la impreziosivano; definì nuovi canoni di uso della punteggiatura (fece scomparire il punto mobile, e stabilì che il punto fosse solo il segno di chiusura del periodo; regolamentò l’uso della virgola, del punto e virgola, di apostrofo e accento); curò la spaziatura e l’allineamento dei caratteri nella pagina facendo incidere due serie di caratteri (soprattutto per le lettere a, e, m, n, t), usandole a seconda che fossero nel rigo o a fine rigo, precedendo così la “giustificazione”, ossia la compattezza di una pagina che oggi il computer fa automaticamente, ma che allora si curava a mano. Geniale fu anche la sua decisione di stampare in italiano, in latino ed anche in greco, lingua che imparò così bene da poterla parlare e scrivere correntemente. Venezia, del resto, era piena di greci fuggiti alla presenza turca in patria, ed era ricca di opere preziose in lingua greca: e Aldo amò quella lingua al punto che nell’Academia Aldina si doveva parlare in greco, pena il pagamento di una multa da devolvere a banchetti sodali. Manuzio provò anche a stampare in ebraico, ed in questa impresa si associò uno studioso che gli garantiva la lettura e la correzione dei testi, Gershom Soncino, ebreo, discendente di stampatori, l’uomo che poteva risolvergli, come ricorda Giulio Busi, il problema di scrivere e correggere in ebraico. Il sodalizio, però, si ruppe presto, perché alla edizione della Introductio perbrevis (1501) alla lingua ebraica, Soncino accusò Aldo di essersi impossessato del suo lavoro e lo lasciò, insieme a Francesco Griffi da Bologna, il grande disegnatore e intagliatore dei caratteri corsivi. Della sua esperienza di stampatore in ebraico rimasero soltanto il suo desiderio insoddisfatto ed un foglio, un solo foglio, del tentativo di stampare la Bibbia su tre colonne (latino, greco ed ebraico), opera che non andò avanti. Il foglio di prova è conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi. Altra innovazione aldina fu la stampa del primo catalogo delle proprie edizioni greche (1498), che poi aggiornò in due successive edizioni. Il segno distintivo delle sue opere, ossia la sua marca tipografica, o impresa, che adottò raffigurava un’ancora (ossia la forza, la stabilità, la fermezza) attorno alla quale si avvolge un delfino (simbolo di eleganza, di rapidità e di intelligenza), con una scritta che riassumeva i diversi simboli: Festina lente, ossia, affrettati con calma. La famiglia dei Pio di Carpi gli dette, poi, anche il diritto di fregiare l’àncora aldina con un’aquila rossa in campo d’argento col nome Pio (forse nel 1504). Aldo portò a compimento tutte queste cose con una genialità e una precisione che gli fu riconosciuta subito: dal suocero (lui stesso stampatore, come si è detto), dai suoi colleghi, dagli uomini di cultura del tempo, che si strinsero attorno a lui assicurandogli le migliori lezioni filologiche delle opere che pubblicava; e dai suoi lettori, perché le sue edizioni divennero all’epoca quel che sarebbero diventati (fatte le necessarie differenze) gli Oscar Mondadori negli anni Cinquanta. Fu severo con se stesso e severo con gli altri, sostenuto da una profonda convinzione circa la funzione anche educatrice, oltre che convertitrice del cattolicesimo. Si impegnò, difatti, in una politica che, come scrive Vittore Branca, fu “non solo culturale, ma civile e di respiro universale; queste sue doti attingevano ad una precisa formazione spirituale, essendo egli anche intransigente uomo di morale cattolica: dei giovani diceva che “se dovessi scegliere, preferirei che non sapessero nulla e fossero virtuosi piuttosto che conoscessero tutto e fossero malvagi”. Ma non fu certo oscurantista, moderne essendo le motivazioni, se è vero che nella prefazione agli Erotemata del Lascaris (1495) dichiara: “Ho deciso di spendere tutta la mia vita a pro’ dell’uomo… sollecitato da un amore incredibile verso l’uomo” [“nihil me magis desiderare, quam prodesse hominibus…”], concludendo che “se si maneggiassero più libri che armi non si vedrebbe tante stragi e tanti misfatti”. In una lettera a stampa indirizzata agli adolescenti, diceva: “Dabo igitur operam, ut quantum in me est, sempre prosim nam etsi quietam, ac tranquillam agere vitam possumus, negociosam tamen eligimus, & plena laboribus. Natus est enim homo, non ad voluptates, bono, & docto viro indignas, sed ad laborem, & ad agendum sempre aliquid viro dignum” . … “Nam (ut inquit Cato) vita hominis prope uti ferrum est; ferrum si exerceas conteritur, si non excerceas, tamen rubino interficit…”. Alla sua morte il 6 febbraio 1515 (l’orazione funebre fu tenuta da Raffaele Regio nella chiesa di San Parernian), lo storico senatore veneziano Marin Senudo lo definì “umanista”, impiegando, scrive Vittore Branca, per la prima volta questo termine nel senso di “chi si era generosamente votato a promuovere e rafforzare la dignità della persona umana”. (Fine).

Note. La citazione di Giiulio Busi è da Il piccolo giudeo di Manuzio (Il Sole 24 Ore Domenica, 4 febbr. 2007, pag. 31), quella di Vittore Branca è da Manuzio ci ha messi in riga. La lezione tipografica, umana e spirituale del più grande stampatore di tutti i tempi (Il Sole 24 Ore, Domenica 26 luglio 1998, pag. 28).