Archivio per Gennaio, 2013
31 Gennaio, 2013 - Nessun Commento

I SETTE MARINAI DI GAETA
CHE RESERO OMAGGIO NEL 1945
ALLA TOMBA DI MAFALDA DI SAVOIA

Mafalda di Savoia

Un libro del giornalista di “Repubblica” Marco Ansaldo, recentemente èdito (Il falsario italiano di Schinlder. I segreti dell’ultimo archivio nazista, Rizzoli) dà conto di una esplorazione nel mega archivio nazista allestito a Bad Arolsen (Assia, Germania), e che è la sintesi di tutte le cose orripilanti nate dalla follìa nazista. E’ un libro che si legge bene, anche se prende alla gola, e che non ha nessuno dei difetti che qualche storico di professione gli addebita, per il semplice fatto che il taglio cui è ispirato è informativo. Ed è efficace. Ma non intendo qui spiegare perché sono dalla parte di Marco Ansaldo e del suo libro, e non delle critiche che non comprendo. Lo cito semplicemente perché tra le tante storie in esso contenute c’è anche quella della misera fine di Mafalda di Savoia, secondogenita figlia di re Vittorio Emanuele III, andata sposa a Filippo d’Assia, e, perciò, divenuta, ahimé, cittadina tedesca. Rapita (letteralmente) a Roma, sia pure con un sotterfugio, finì a Buchenwald, dove morì in seguito ad un intervento chirurgico praticatole per amputarle un braccio ferito nel corso di un bombardamento aereo sul campo di sterminio. Mafalda fu poi sepolta nel cimitero di Weinar. E qui si spiega questa notizia. Dopo la liberazione del campo di Buchenwald da parte delle forze alleate, tra gli internati furono riconsegnati alla libertà anche sette marinai di Gaeta. Ed essi si resero protagonisti di una piccola, ma significativa azione d’amore che qui si vuole ricordare.

Intanto i loro cognomi: Magnani, Mitrano, Colaruotolo, Pasciuto, Avallone, Fusco, Ruggeri. Essi, venuti a conoscenza che la loro compagna di campo di concentramento era morta, in un gesto di umana pietà verso la sua sfortunata vicenda, vollero recarsi nel cimitero di Weimar e, individuata la tomba, onorare la memoria della sfortunata principessa apponendo un loro ricordo: una croce intagliata nel legno di faggio (Buchenwald significa, appunto, bosco di faggi) ed una lapide di marmo che reca l’epigrafe: A Mafalda di Savoia i marinai della città di Gaeta…” e i loro sette nomi. Essi commissionarono croce e lapide ad artigiani tedeschi, pagandoli con forme di pane, visto che i loro “fornitori” non vollero, in cambio, gli ormai inutili marchi tedeschi. Quel segno di un affetto che superava anche le soglie tragiche di un tragico fine guerra e fine delle stragi naziste, ci sono ancora oggi, perché hanno seguito la salma che la Famiglia d’Assia ha deposto nel cimitero del borgo di Cronberg.

26 Gennaio, 2013 - Nessun Commento

La “Giornata della memoria”
RICORDIAMO CHI HA PAGATO
I CATTIVI CONTI DEL “SECOLO BREVE”

Corpi rinvenuti a Buchenwald (foto da Wikipedia)

LATINA – Cade di domenica, quest’anno la Giornata della Memoria, che vuole ricordare, il 27 gennaio di ogni anno, uno dei peggiori connotati del “secolo breve”, il tentativo di sterminio degli Uomini di religione ebraica, ma anche degli Uomini in quanto tali. Anche la provincia di Latina – dai cui paesi nascono alcuni nomi della attuale comunità (i Piperno, i Terracina, i Sermoneta, i Di Cori, i Di Lenola, ecc.) e alcuni topònimi (il “vocabolo” Fuga degli Ebrei, nell’area pedemontana di Sermoneta) ha nel passato dedicato attenzione sporadica ma costante all’evento. Nel suo territorio un tempo si sono insediate floride comunità di cittadini ebrei, poi trasmigrati: alcuni studiosi nostrani hanno dedicato ad esse specifiche ricerche, ricordando l’influenza culturale ed economica che esse ebbero nella vita delle comunità autoctone. Eppure si fa fatica a raccogliere tutte le testimonianze, anche “minori” (ammesso che possa definirsi minore l’aiuto dato perché si salvassero vite umane), che pure ci sono state. Chi ha più voce di noi dovrebbe farsi portatore di un appello: ognuno porti le proprie piccole testimonianze, anche di episodi apparentemente secondari, per ricostruire nella sua migliore approssimazione un contributo alla storia. Per parte nostra diamo di seguito un contributo al ricordo.

Nello stesso tempo, molti cittadini della provincia hanno patito le angosce dell’internamento nei lager nazisti (ed anche in quelli italiani, che ci furono (Fossoli, Bolzano, Trieste, ecc.) da civili e da militari che non vollero servire la Repubblica fascista di Salò. Anche in questo caso ci sono stati libri e memorie, eppure ancora emergono testimonianze finora rimaste mute. Facciamo risorgere anche queste nuove voci, magari nel ricordo di figli e nipoti.

Il dopoguerra degli Ebrei nel Golfo di Gaeta
Il 1938 è un anno di svolta. E’ l’anno in cui il consenso al fascismo ha raggiunto l’apice. Ma è anche l’anno nel quale si addensano le prime nuvole, preannunciate dalle odiose leggi sulla razza che discriminano, in particolare, gli ebrei. Sembra opportuno ricordare, specialmente ai molti giovani che non conoscono questi fatti, che il rapporto tra fascismo e cittadini italiani di religione ebraica – che pure avevano generalmente aderito, a volte con entusiasmo, al regime – subì una rapida evoluzione negativa già nel 1936, con quella che viene definita la “crisi della parità” dei diritti. Questa crisi ebbe, a sua volta, un’ancòra più una rapida evoluzione: nel 1938, con le leggi antiebraiche, le “leggi della vergogna”, assunte ad imitazione di quelle naziste, la crisi della parità divenne diniego del diritto di essere cittadini italiani, e nel 1943-44 anche diniego della vita, con le razzìe e il concentramento. Si iniziò con il Manifesto degli scienziati razzisti (15 luglio 1938), firmato inizialmente da dieci docenti universitari poi seguiti da molti altri loro colleghi, e si proseguì con la Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo (6 ottobre 1938) e, infine, a coronamento di questa progressione, furono emanati il Regio decreto legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390 che disciplinava i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista; il Rdl 17 novembre 1938-XVI, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; il Rdl 15 novembre 1938-XVI, n. 1779, Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana: essi furono accompagnati da una serie di circolari e disposizioni amministrative (v. La persecuzione degli Ebrei durante il fascismo. Le leggi del 1938, Camera dei Deputati, Roma 1998). Nei giorni 25 novembre 1943 e 14 maggio 1944 i giornali vennero invitati a sottolineare “particolarmente il significato politico” del “sequestro delle opere d’arte di proprietà ebraica”; e “con rilievo la notizia relativa alla confisca di aziende agrarie di proprietà ebraica”. E ancora il 23 maggio, una diecina di giorni prima della liberazione di Roma, ancora si invitavano i giornali a “dare con rilievo il comunicato relativo alla prossima emanazione delle leggi razziali”.
Anche in provincia di Littoria gli effetti delle leggi razziali si avvertirono. Non erano molti gli ebrei presenti, ma le discriminazioni li costrinsero a mettersi al riparo, trovando, peraltro, aiuto nella popolazione locale. A partire dal 1947 il Golfo di Gaeta divenne il luogo della speranza per centinaia, forse migliaia, di ebrei italiani scampati alle persecuzioni. Il senatore Mario Costa, formiano, prima della sua scomparsa (1997), ha raccontato a chi scrive episodi di cui fu testimone ad Acquatraversa: “Alcune sere vedevo scendere persone silenziose da camion che arrivavano fin sulla spiaggia a fari spenti. Sempre in silenzio salivano su piccole barche a remi e s’inoltravano nel buio verso il largo”. Ed Erasmo Vaudo, di Gaeta, possiede una medaglia lasciatagli dal padre, E. Salipante – motorista del motopesca San Marco, di cui era capobarca Antonio Vaudo – l’aveva ricevuta in dono da un ebreo che aveva accompagnato insieme con altri correligionari da terra alla nave che l’aspettava al largo. La medaglia è emblematica: è del 1930 e sul recto riproduce le Tavole della legge mosaica, con scritte in caratteri ebraici, sormontate dal candelabro a sette braccia, e la legenda “Senza la legge cielo e terra crollerebbero”; in basso la stella di David e il nome dell’incisore Arrigo Minerbi; sul verso, a tutto campo su sei righe la scritta: Vittorio Emanuele III re/Benito Mussolini /Capo del Governo/le Comunità ebraiche d’Italia/ a ricordo della legge/ 30.X.1930-IX. In alto a sinistra la corona reale, in basso a destra il fascio littorio. Un racconto di quella storia è stato fatto da Ada Sereni (L’emigrazione ebraica in terra d’Israele dal 1945 al 1948, Mursia, Milano 1973). I fatti sono ricordati anche da Gaetano Andrisani nel saggio introduttivo al libro di monsignor Paolo Capobianco, Gli Ebrei a Gaeta (Quaderni della Gazzetta di Gaeta, 1981). Il 27 gennaio 2001 il signor Antonio Brigliadoro, di Gaeta, mi ha scritto ricordandomi quanto avveniva nei Cantieri Orlando Castellano di Gaeta, divenuti poi Società Naves:“… veloci motonavi di medio tonnellaggio venivano acquistate da personale competente in diversi porti italiani e dirette ai cantieri navali di Gaeta, dove venivano revisionati i motori, riparato lo scafo, e, nella stiva, ricavate piccole cuccette, per il riposo degli sventurati superstiti [della Shoah] durante la navigazione dal porto di Gaeta a qualche spiaggia palestinese. Qui la nave veniva arenata col motore “avanti tutta”, permettendo così una più facile operazione di sbarco. Una signora di una certa età, di media statura, quasi sempre vestita di nero, commissionava i lavori presso gli uffici della direzione [del cantiere Castellano] accompagnata da qualche emissario. A lavori ultimati arrivavano prima camions con vettovaglie (scatolame statunitense) e poi il convoglio con i sopravvissuti. Il primo di questi convogli giunse a Gaeta nottetempo, nell’estate del 1947. Numerosi camions coperti da pesanti tendoni, con circa un paio di centinaia di Ebrei, procedendo lentamente, a fari spenti, attraversarono Corso Attico e si diressero verso il cantiere. Il cancello era stato tenuto aperto per facilitare l’entrata. I successivi convogli arrivarono con minore cautela e gli ultimi addirittura in pieno giorno. Grosso modo, per circa due anni, furono approntate una dozzina di navi da 200 o 300 tonnellate di stazza. I lavori finirono nella primavera del 1948, in seguito alla costituzione dello Stato d’Israele”.
La scelta del Golfo di Gaeta era stata fatta dall’organizzazione ebraica a causa della sua tranquillità, come uno dei luoghi elettivi per imbarcare coloro che, redfuci dalla Shoah europea, volevano tornare in terra d’Israele: il “bel Golfo di Gaeta, tranquillo, sicuro ed eternamente riparato dai venti…”, lo definisce Ada Sereni. Nella seconda metà del 1947 ad Acquatraversa, nella campagna formiana, venne affittata una piccola casa semidistrutta, di proprietà di un contadino: il canone consisté nei lavori di riparazione dell’abitazione, che venne trattenuta per due anni. Formia divenne, nel gergo dell’organizzazione, un “campo climatico”. Diverse furono le partenze: gli emigranti, che sfidavano la sorveglianza degli inglesi, impegnati a ricacciarli in mare, una volta a Formia o a Gaeta, raggiungevano il largo a bordo di piccoli gozzi o di cianciole da pesca, poi venivano imbarcati su navi più o meno grandi, più o meno “carrette”. L’ultima nave partì da Formia nella notte del 14 maggio 1948, una data fondamentale per la storia del nuovo Stato d’Israele. Commenta Ada Sereni: “Stavolta i libri di bordo non vennero nascosti, né venne cambiato il nome della nave, perché in quel medesimo giorno, i maggiorenti israeliani, riuniti in un’assemblea memorabile, avevano proclamato, dopo diciannove secoli, la ricostituzione dello Stato d’Israele” .
Dal libro Storia illustrata di Formia, Vol. IV, a cura di Pier Giacomo Sottoriva, E. Sellino Editore, 2002

Cittadini pontini nei lager nazisti
La provincia di Littoria ha avuto numerosi suoi cittadini vittime delle più ampie vicende che hanno interessato l’Italia: lo sbandamento dopo l’8 settembre, che portò molti a militare con la divisa della R.S.I., e qualcuno anche con quella delle SS italiane, un corpo che giurava fedeltà al Fuhrer e non a Mussolini; altri a marcire o a morire nei lager. Ma la stragrande maggioranza dei soldati in armi e dei giovani sottoposti a leva rifiutarono di aderire alla repubblica fascista di Salò, e si esposero alla ritorsioni e agli internamenti nei campi di lavoro, che furono, in rdeealtà, per molti di loro, campi di sterminio. Tra gli internati vi è stato Francesco Cimino, originario di Castelforte, che ha lasciato un ricordo della sua disgraziata avventura in un diario-racconto, scritto cinquant’anni dopo, nel 1995, Diario di un internato in un lager nazista. Ebbe la fortuna – e con lui il fratello e una ventina di suoi compaesani – di capitare in un lager che non era campo di morte. Sopravvissuti ai campi di sterminio furono anche Rinaldo Rinaldi, di Cisterna, e Angelo Baccari di Maenza, le cui storie personali sono diventate libri, l’uno raccolto da Maurizio Cippitani e Patrizia Pochesci, che hanno trasformato il racconto di Rinaldi in una emozionante lettura (Là fuori del filo nessuno ci ascolta…,); l’altro scritto dal figlio di Angelo Baccari, Luciano, che ha narrato in prima persona le vicende del padre. Ho, poi, personalmente conosciuto un reduce da Mauthausen, il fondano Nicola Guglielmi, meccanico, che rientrò a piedi dalla Germania, come quasi tutti i suoi sfortunati compagni di lager. Ma di troppi sono rimaste oscure le sofferenze. Forse è venuto il momento che vengano alla luce.
Dal libro di Pier Giacomo Sottoriva Cronache da due fronti. Gli avvenimenti bellici del 1943-1944 sul Garigliano e nell’area pontina, Editrice Il Gabbiano, Latina 2004.

 

15 Gennaio, 2013 - Nessun Commento

BORGO FAITI/ RUBATA SULL’APPIA
LA COLONNA DEL XLIII MIGLIO ROMANO

Un’altra importante testimonianza archeologica della nostra provincia è scomparsa, probabilmente rubata. E’ la colonna migliaria romana che segnava il XLIII miglio. Un reperto che ha una storia, perché fu rinvenuto abbandonato lungo la via Appia, in territorio di Forum Appii (corrispondente al territorio antistante Borgo Faiti), ed all’epoca recuperato, restaurato e rimesso in ordine dall’Amministrazione Provinciale di Latina presieduta dal professor Antonio Caradonna, alla fine degli anni Sessanta. Fu svolta anche una cerimonia inaugurale.

Il cippo era circondato da una piccola aiola di mirti che con gli anni è andata impoverendosi, fino ad essere sopraffatta dalle erbacce.

La colonna si trovava a qualche centinaio di metri dall’Albergo-Mansione Foro Appio, di fronte all’abitato di Borgo Faiti, ma in territorio di Sezze, proprio lungo l’itinerario compiuto da San Paolo forse nel 61 d.C. La scoperta è stata fatta la mattina del giorno 11 gennaio 2013 da un attento osservatore di quei reperti. Nella zona, in effetti, si trovano, lungo circa 200 metri, altre testimonianze dell’Appia romana, e precisamente almeno due grandi epitaffi che recano scritte latine attestanti gli interventi di restauro e manutenzione compiuti nel tempo in favore della via consolare.

Il cippo cilindrico che recava l’iscrizione è stato letteralmente stroncato, spezzato: a terra è rimasta la base, tagliata malamente da un evidente strappo. Ciò significa che i ladri sono venuti con un automezzo capace di sollevare almeno 5-600 kg, perché tale dovrebbe essere il peso del reperto, e, facendo forza, magari approfittando di una piccola frattura, hanno tirato verso l’alto finché il calcare non ha ceduto spezzandosi. Il tutto sul bordo di una strada trafficata anche di notte com’è l’Appia. La parte superiore, che reca le iscrizioni (nella foto in bianco e nero è riprodotta la colonna: l’immagine fu presa nel 1972, ed è di proprietà privata e soggetta a riserva); la foto a colori rappresenta ciò che rimane sul posto dopo il furto o il vandalismo.

Si ricorda che alcuni anni fa a Tor Tre Ponti fu letteralmente estratto dal terreno in cui era conficcato il grande monumento che indicava l’inizio del Decennovium, fatto apporre da Papa Pio VI durante la bonifica di fine Settecento. Il monumento, anche se danneggiato, venne poi recuperato ed ora si trova a Latina, abbandonato a se stesso, fuori della visione di eventuali appassionati. E’ l’ennesima cronaca dell’abbandono culturale in cui si trovano i beni che fanno la storia della nostra terra.

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