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11 Maggio, 2018 - Nessun Commento

220 ANNI FA A FONDI E NEL SUD
TRA FRANCESI E INSORGENZA

colonnavedutaSi saltano le vicende della insorgenza terracinese e quelle di Monticelli (o Monticello, oggi Monte San Biagio), andando a pie’ pari  a  Fondi. La città, la prima del regno di Napoli sulla strada dei Francesi, fu presa d’assalto la vigilia di Natale e conquistata con un solo colpo di cannone che, dicono le cronache, distrusse [s1] la Porta romana e uccise un contadino che camminava nei paraggi. La furia francese fu terribile: venne incendiato l’antichissimo teatro baronale, risalente al XII-XIII secolo (mai più ricostruito), saccheggiati e bruciati sulla pubblica piazza i documenti dell’anagrafe, dell’archivio comunale, del palazzo baronale, “inclusa la ricca biblioteca”, la maggior parte degli archivi di chiese, dell’episcopio, dei conventi, delle corporazioni, persino dei privati, come la famiglia Calamita, che custodiva il Libro delle Assise con le consuetudini della città. Era la cancellazione della memoria di una comunità. Molte chiese furono incendiate e profanate, opere d’arte distrutte o vandalizzate. L’albero della libertà fu piantato, provocatoriamente, davanti alla chiesa di S. Maria Assunta. Sullo slancio, i francesi assalirono e catturarono il fortino che difendeva Itri nelle Gole di S. Andrea, e penetrarono nel paese, che venne sottoposto a saccheggio e ad uccisioni. Anche il Santuario della Madonna della Civita venne depredato il 30 dicembre. Tra il 30 e il 31 dicembre, si arrese anche la piazzaforte di Gaeta, dopo una trattativa tra il governatore Fridolin Tschudy, il vescovo, i maggiorenti della città e il comando dell’esercito francese. I giacobini gaetani innalzarono due alberi della libertà. I patti di resa scongiurarono gli eccessi, ma un documento dell’archivio episcopale elenca i molti danni arrecati a varie proprietà ecclesiastiche. Nello stesso 30 dicembre i francesi occuparono i borghi di Mola e Castellone, lontano ricordo dell’antica Formiae. La conquista dette ai due centri l’occasione per riunificarsi sotto la Municipalità costituita nel gennaio 1799, con a capo gli Edili; a Mola, lungo la via Appia, fu innalzato l’albero della libertà, una colonna corinzia, poi scomparsa nell’Ottocento e della quale sono state recentemente ricostruite le vicende, con lo spostamento dalla originaria posizione e il ripristino in altro luogo. Il giorno dopo, ultimo di quel 1798, le truppe francesi raggiunsero Traetto, l’odierna Minturno, e, dopo aver lasciato piccoli distaccamenti nei paesi conquistati, si diressero su Capua, dove l’1 1 gennaio affrontarono l’esercito napoletano, sconfiggendolo. Anche a Ponza era stato innalzato l’albero della repubblica: a farsi portavoce dei nuovi sentimenti giacobini era stato il giovane alfiere Luigi Verneau, figlio del comandante della guarnigione. Come è noto, la conquista durò poco. Nella primavera del 1799 la coalizione europea iniziò una forte pressione armata sui francesi, mentre nello stato napoletano si allargava e si fortificava l’insorgenza, che diveniva fenomeno organizzato: nel sud, con le bande sanfediste guidate dal cardinale Ruffo; nel territorio della odierna provincia di Latina, con bande di “scarpitti”, contro la cui crescente aggressività i francesi reagirono duramente. Championnet ricorda che un generale non deve pensare ai lutti altrui, ma ai risultati militari, e dette una concreta e spietata dimostrazione di questo teorema a Traetto e a Castelforte, che vennero messe a ferro e fuoco. Il generale polacco Dombrowski attaccò Traetto alla baionetta la notte di Pasqua, tra il 24 e il 25 marzo 1799, provocando 349 morti. Il canonico Gaetano Ciuffi ne ha lasciato, cinquant’anni più tardi, una cronaca molto vivace. Il sacerdote attribuisce, anzi, a quell’episodio il principio fatale del decadimento di questo bel paese” che “veniva con ragione annoverato tra le più cospicue città del Regno”. Il canonico riferisce che “furono massacrate circa ottocento persone (inclusi gli individui dei paesi circonvicini)” e aggiunge: “I più belli edifici furono rovinati, o totalmente distrutti, tra i quali ricordare si deve la magnifica chiesa di S. Francesco […], distrutte restarono pure la Cartiera e la Faenziera in Scavoli [Scauri], e molti edifici quasi del tutto rovinati, tra i quali la bellissima chiesa di A.G.P. (cioè l’Annunziata) ed il palazzo del duca di Carafa”. Insieme agli edifici, ci fu razzia di beni artistici, arredi sacri, mentre molti dei libri conservati nel convento francescano e nelle chiese finirono distrutti. Tra il 25 e il 26 marzo fu assalita anche Castelforte, che patì molti morti, ma che, stando alle cronache locali, procurò molti problemi agli assalitori, che lasciarono sul terreno circa 600 uomini, cifra che, se vera, è davvero imponente. A Maranola, alle spalle di Formia, e all’epoca ancora comune autonomo, per garantirsi dalla cittadinanza l’erogazione delle vettovaglie i militari presero in ostaggio le donne, episodio che resta nella memoria popolare. Ma non si comporterà molto diversamente Fra’ Diavolo, quando, alla testa dell’insorgenza, qualche mese dopo, si sostituì ai francesi nello stesso comune per sollecitarne contribuzioni forzose. E’, ormai, l’inizio della fine di questa prima avventura giacobina, che viene preannunciata dagli episodi di Traetto e Castelforte, ma che trova riscontro anche nella occupazione di Ponza da parte della flotta britannica, il 15 aprile 1799. La reazione che si scatena sull’isola porta all’abbruciamento dell’albero della libertà, e alla successiva, barbara uccisione, il 6 luglio, al Foro borbonico, di Luigi Verneau, dopo essere stato prima condotto a Procida nel maggio e poi ricondotto a Ponza. Anche a Fondi l’alberoviene abbattuto e sostituito da un obelisco sormontato da una croce, e analoga reazione si ha a Monticelli. I francesi, ormai, si preparano a sganciarsi: Fra’ Diavolo, nel giugno del 1799, colloca il suo quartier generale tra Maranola e Formia, ponendo l’assedio a Gaeta, che conquista il 31 luglio. Da quel momento la ritirata francese non ebbe più soste, ma lasciò brutali segni del suo passaggio.

(Riprtoduz. vietata senza citare origine)

 

 

1 Maggio, 2018 - Nessun Commento

1/GLI AVVENIMENTI DEL 1798-99
NEL TERRITORIO DELL’ATTUALE
PROVINCIA DI LATINA

IMG_3976Duecentoventi anni fa, gli avvenimenti che portarono alla formazione della Repubblica Romana e di quella Partenopea (1798-99) attraversarono anche il territorio dell’attuale provincia di Latina, lasciandovi forti segni. Si propone qui solo un breve ricordo di quegli eventi. Essi, furono sfiorati sia in un convegno tenuto a Formia  nel 1997 e dedicato alla Repubblica partenopea,  con l’intervento del compianto Gerardo Marotta e l’allestimento di una mostra documentaria che ricostruiva lo svolgersi degli avvenimenti nell’area meridionale. Così come nel 1999 si tenne a Terracina un secondo convegno dedicato all’insieme di quegli avvenimenti. Poche, sintetiche note per introdurre il periodo. Dopo la formazione della Repubblica Cisalpina (che aveva inglobato quella Cispadana), il vento
del rinnovamento si era esteso alle aree politiche centro-meridionali: anche nello Stato pontificio e nel regno di Napoli, quindi, si erano creati movimenti che puntavano al rovesciamento istituzionale. Sostenuti dall’esercito francese,  essi portarono, il 16 febbraio del 1798, alla proclamazione della Repubblica Romana, e alla conseguente
occupazione del territorio pontificio fino a Terracina. Il re di Napoli Ferdinando II operò un tentativo per restituire a Pio VI il suo stato, e nel novembre 1798 mosse su Roma1: ripristinò, strada facendo, l’autorità pontificia (a Terracina il 25 novembre), penetrò nel proclamato territorio repubblicano con le sue truppe, innalzò le sue insegne sul riconquistato Quirinale, ma dopo aver subìto, il 10 dicembre, una dura sconfitta a Civita Castellana, abbandonò
precipitosamente l’impresa per rientrare nei suoi territori, inseguito dalle truppe francesi.  Un bello spirito commentò in versi: “Con soldati infiniti / si mosse dai suoi liti,/verso Roma bravando / il re don Ferdinando / e in pochissimi dì / venne, vide e fuggì”. Il vincitore Championnet pose a Terracina il quartier generale delle sue
operazioni contro Napoli. Ma la presenza francese non tranquillizzava le altre potenze europee e così Austria, Russia e Inghilterra si contrapposero alla Francia, portando, nel 1799, al ritiro delle sue truppe e al tracollo delle Repubbliche giacobine. Tra la metà del 1798 e il 1799 quella che oggi è la provincia di Latina si trovò, dunque,
ad essere percorsa più volte dalle truppe napoletane e da quelle francesi, con risultati decisamente sconfortanti per le città attraversate. La situazione politica locale era, a sintetizzarla al massimo, divisa tra una sostanziale fedeltà al pontefice (e nel sud al re) e fermenti di rinnovamento, che furono definiti giacobini. Essi impegnavano soprattutto una minoranza illuminata – borghesi, intellettuali, anche sacerdoti – capace di suscitare emozioni e ribellione. Da questa situazione nacquero movimenti di adesione alle repubbliche, a volte con la formazione di governi locali che mutuarono alcuni degli istituti francesi (la mairie, il Sindaco) e che presero simbolo visibile nella erezione degli alberi della libertà;  e in contrastanti movimenti di insorgenza, alimentati dalle classi più legate al vecchio potere, sostenuti da qualche capo-popolo, e di cui erano braccio armato bande o masse di “scarpitti”. Il periodo fu,
insomma, fortemente conflittuale all’interno dei corpi sociali locali.
Quasi simbolici di quella conflittualità e del rapido evolversi e mutare delle contrapposte emozioni e delle conseguenti determinazioni politiche, furono gli avvenimenti di Sezze: qui il 24 febbraio 1798 si decise di alzare l’albero della libertà con un gesto solenne e formale, attraverso un atto rogato dal notaio Lidano Maria De Grandis
(che, però, annotò successivamente a margine l’espressione “coactive rogatum”); e venne, contemporaneamente,  adottata la bandiera coi tre colori bianco, rosso e nero, come ricordano documenti conservati
nell’Archivio di Stato di Latina. Ma appena pochi mesi dopo, il successivo 29 luglio, le cose vengono capovolte: “Dall’istesso popolo viene reciso, distrutto e abbrugiato l’infame albero e detestata l’infame Democrazia”.

Quella fine Settecento avrebbe dovuto essere anche il periodo conclusivo della grande bonifica moderna avviata da Pio VI nelle paludi pontine. La via Appia era stata ripristinata dopo circa mille anni di abbandono; erano state costruite le stazioni di posta a Bocca di fiume, Mesa e Ponte Maggiore, ed era in fase di completamento
quella di Tor Tre Ponti, dove era stata edificata anche la chiesa dedicata a San Paolo. La bonifica aveva avuto straordinari riflessi soprattutto per la città di Terracina, che era stata ricollocata al centro di un grande itinerario commerciale, politico e culturale. Ed erano state realizzate grandi innovazioni nel tessuto urbano: un nuovo
quartiere era nato ai piedi della collina, nelle “arene”, e si chiamò Borgo Pio. Lo dominava il Palazzo Braschi, costruito dal papa per la sua famiglia.  Pio VI aveva, inoltre, impostato una serie impressionante di opere pubbliche: l’ospedale, l’episcopio, i giardini della Marina, la dogana, l’albergo, la posta, ‘acquedotto del Fico, il porto, che  doveva essere uno dei punti di forza del suo programma. Ma mentre il Canale di Navigazione, scavato a partire da Ponte Maggiore, fu ultimato, il bacino finale restò sulla carta, interrato tranne che nella parte dove si allargava una darsenetta, che ancora oggi si chiama con un nome romagnolo, lo squero. Furono, infine, costruiti i
Granari camerali, e aperta una nuova importante via, la strada Pia. Quest’opera sarebbe dovuta continuare con la costruzione della chiesa e del convento dei Domenicani, progettati da Giuseppe Valadier, che
ideò anche la sistemazione dell’antistante spiazzo del Semicircolo. Ma i francesi posero fine a tutto, arrestando Pio VI (che sarebbe morto esule a Valence il 29 agosto 1799), e ripiombando Terracina indietro nel passato. La spedizione francese attraverso il territorio della provincia utilizzò, dunque, quella via Appia che dal 1784 era ridivenuta strada postale e comoda via di penetrazione militare. Il primo paese a pagare lo scotto di quegli avvenimenti fu Cisterna, che era stata liberata dal grande bosco che ricopriva l’immediata periferia del paese e la stessa Appia fino a Tor Tre Ponti. Il paese subì guasti dapprima ad opera delle truppe borboniche in ritirata, che fecero man bassa di animali, poi dei francesi. Anche Sermoneta ebbe la sua parte di guai: i Francesi penetrarono senza incontrare resistenza
nel castello dei Caetani, dei quali si puniva la fedeltà al pontefice, asportandone i 36 cannoni, che avrebbero dovuto difenderlo, e l’intera armeria, mentre le stanze di residenza, anche quelle che portavano sulle pareti gli affreschi della scuola del Pomarancio, furono utilizzate come bivacco delle truppe o furono adattate a prigione.
Sulle loro pareti i graffiti raccontano ancora nelle ingenue raffigurazioni di tricorni giacobini,  di spaventate suorine, di cannoni e  di bandiere papaline le vicende di quegli anni e quelle delle successive “campagne” francesi. Anche l’abbazia di Fossanova fu depredata e i suoi beni venduti sulla piazza di Priverno.
(continua/1).
(Ripr. vietata senza citare origine)

30 Aprile, 2018 - Nessun Commento

La visita in provincia di Latina
di Enrico De Nicola nel 1947

01DENICOLANon tutti sanno che nell’aprile 1947, l’allora Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola compì un viaggio in provincia di Latina, impegnandosi in un tour de force che lo portò ad attraversare nella stessa giornata l’intero territorio. Gli amministratori locali pontini avevano espresso attraverso il prefetto Orrù il desiderio che il Presidente si recasse in visita nei loro centri, perché constatasse l’entità dei danni subiti a causa della II guerra mondiale, conclusasi solo due anni e mezzo prima. Il tema era importante perché si stavano per emanare i provvedimenti governativi destinati a ridare vita a Cassino, Montecassino e ai paesi della bassa Ciociaria devastati dagli eventi bellici, e l’area pontino-aurunca non intendeva essere dimenticata. In particolare, furono i sindaci di Cisterna, Terracina, Fondi, Itri, Formia e Minturno a fare a De Nicola la richiesta “per ricevere l’omaggio delle popolazioni”. Il Capo provvisorio dello Stato non fece passare 24 ore per dare la sua risposta affermativa , e il 2 aprile ebbe luogo la visita. Il Prefetto si preoccupò di due cose, secondo i desideri dell’illustre Ospite: “evitarsi in modo assoluto largo impiego di forze pubbliche” ; e “non costituire ostacolo at popolo di liberamente manifestare at Capo Stato”. Altri tempi. Ciononostante, il Questore di Latina, Giuseppe Salazar, si preoccupò di assicurare “misure di vigilanza per evitare qualsiasi sorpresa”, incluso il controllo delle strade impegnate dal corteo e le ispezioni delle fognature e dei chiusini. Quanto al popolo, De Nicola si preoccupava che esso potesse liberamente manifestare, mentre Salazar disponeva di trattarlo “con garbo non disgiunto dalla dovuta energia”.

Le richieste che De Nicola ricevette furono numerose ( e non tutte soddisfacibili). Egli si trattenne in provincia fino alle 21.30 prima di ripartire per Roma. I Sindaci esposero la situazione dei rispettivi paesi. Nel fascicolo relativo al viaggio (si trova, presso l’Archivio di Stato di Latina), sono rimaste tre relazioni: del Comune di Cisterna (a firma di Felice Leonardi), di Gaeta (del sindaco Giovanni Cesarale) e di Minturno (del sindaco Nicola Bochicchio), oltre a qualche sintetica nota di altri Comuni. Per Cisterna si ricordava che circa 4000 abitanti erano ancora nei “centri di raccolta per profughi di Sabaudia, Latina, Roma e in altre parti d’Italia”, che erano rientrati circa 5000 cittadini sfollati, e che essi “sono tutt’ora ricoverati allo stato primitivo sotto baracche e tuguri, sia in paese che in campagna”. Si chiedevano, perciò, fondi per case popolari, la liquidazione dei danni di guerra, l’approvazione del piano di Ricostruzione, interventi per le opere pubbliche quasi interamente distrutte, e la costruzione di aule scolastiche, fogne, di un lavatoio pubblico e di “gabinetti pubblici di decenza ed orinatoi”. Gaeta, a sua volta, chiedeva risarcimenti, il ripristino dell’acquedotto, la ricostruzione delle case ridotte in macerie, della casa comunale, delle scuole elementari, del mattatoio, del tronco ferroviario Gaeta-Formia, delle banchine portuali minate dai tedeschi, dell’episcopio, della cattedrale e delle chiese parrocchiali, oltre alla esenzione da imposte e tasse, alla bonifica del pantano di S. Agostino, al ripristino del servizio trisettimanale Gaeta-Ponza, al “ripristino degli Uffici pubblici aboliti e trasportati altrove dal passato regime”, come Ufficio del Registro e Distretto militare. Minturno, infine, evidenziava l’emergenza più grave nella mancanza di acqua potabile, fatta eccezione per Scauri, e della rete elettrica; nelle case pericolanti e nelle macerie non sgomberate, nella bonifica dei rii S. Domenico, Capolino e Capodacqua, che sboccavano nel largario di piazza Roma e nei pressi dell’ex cinema Capolino. E mentre si registrava l’apposizione dei vetri alle finestre delle scuole, si lamentava il perdurante sfacelo del carcere mandamentale e della pretura, del municipio e delle case che impedivano il rientro dei cittadini ancora raccolti ancora nei centri profughi.

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