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30 Giugno, 2025 - Nessun Commento

IL TEATRO ROMANO DI MINTURNAE RICORDA IL SENATORE MARIO COSTA

Domenica 6 luglio alle ore 21, il Teatro Romano di Minturnae, giunto al 65 anno di attività, ospiterà una serata speciale dedicata alla sua inaugurazione e in particolare alla figura del senatore Mario Costa, che ebbe l’intuizione di riportarlo alla vita artistica, sottraendolo dall’abbandono di duemila anni. Per farlo ha scelto il maestro Umberto Scipione, compositore, pianista, direttore d’orchestra  e docente presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, celebre musicista nato a Gaeta, figlio e nipote di musicisti: suo padre Roberto suonava nell’ Orchestra ritmica della Rai, mentre suo nonno Umberto, da cui il nome, ha fondato il Complesso bandistico “Umberto Scipione Città di Formia”.

Ma come rinacque il Teatro romano di Minturnae?

Questa è una breve ma fedele storia di come il Teatro Romano di Minturnae rinacque a nuova vita nell’anno 1960.  Chi scrive ha vissuto – poco più che ventenne – tutta la saga di questa rinascita e ritiene di poterne essere fedele cronista, senza aggiunte per esaltare, né dimenticanze per limitare.

Per la precisione questo articolo viene preso da uno scritto per gran parte simile, che venne pubblicato in una bella edizione curata dal Comune di Minturno nel 2005, sotto il titolo  Il teatro romano di Minurnae. Le stagioni di spettacoli, dal 1960 al 2004,e contenente una esaustiva silloge di tutti gli avvenimenti.

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Il Teatro romano di Minturnae non costituisce soltanto uno dei tanti gloriosi monumenti che denunciano, con le terme, le scomparse biblioteche, edifici e templi, il livello di cultura “sociale” dei Romani in terra Aurunca: esso rappresenta un preciso emblema di una struttura civica che, malgrado la difficile storia vissuta, si è perpetuata attraverso i secoli nell’odierna e diversa Città collinare di Minturno, e nelle sue espressioni marittime e interne: Scauri, e Marina di Minturno, Tremensuoli, Santa Maria Infante, Pulcherini e Tufo. La continuità culturale, i cui anelli sono rappresentanti, tra gli altri, da Antonio Sebastiani detto significativamente “Il Minturno”, e, in età più prossima a noi, da Pietro Fedele, ministro della Pubblica Istruzione negli anni Venti del Novecento, Domenico Tambolleo, Angelo De Santis, Cristoforo Sparagna, Pasquale Maffeo, e altri cultori di arti umanistiche e fecondi custodi della tradizione locale, ha avuto il consolidamento materiale nella “resurrezione” del teatro.

Questa risale al periodo compreso tra l’ultimo scorcio degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta del Novecento, quando i ruderi dell’opera, sopravvissuti agli spogli prima dettati dal trasferimento del paese in collina, poi dall’uso come fortificazione fattone dai Saraceni, insediati nell’area del Garigliano nel X secolo, e ivi rimasti fino alla loro dispersione, seguita alla sconfitta inflitta dall’alleanza tra papa Giovanni X e i signori feudali dell’area aurunca nel 915, furono oggetto di interventi di restauro finalizzati alla ripresa delle rappresentazioni.

L’opera di Umanesimo, prima ancora che di archeologia, che sottintende al recupero del teatro nasce dal felice incontro di tre diverse istanze: quella della Soprintendenza archeologica del Lazio, e in particolare del giovane responsabile locale professor Baldàssare Conticello; quella di un altrettanto giovane uomo politico, il dottor Mario Costa, da poco nominato presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo, che lanciò l’idea e sposò il restauro del Teatro con una passione che fu l’arma vincente che superò le difficoltà finanziarie, tecniche, artistiche, burocratiche; e quella di un’ardente passione minturnese che si raccoglieva intorno ai nomi di Angelo De Santis (la guida storica), di Salvatore Signore e di Luigi Raus (presidente e vice presidente della Pro Loco) e di Severino Del Balzo, agli esordi in politica e desideroso di agire, poi divenuto Presidente della Provincia.

Ad essi altri si aggiunsero nel prosieguo: Gennaro Sparagna, Filippo Monti, Pasquale Ferrara, Paolo Graziano, Michele Sparagna, Francesco Rossillo, presidenti della Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo istituita nel 1963.

Accanto ad essi si colloca una schiera di personaggi che, da diverse posizioni di responsabilità, hanno reso possibile il “miracolo” di una continuità artistica che, ormai, ha felicemente girato il Terzo Millennio.

IL “NUOVO” TEATRO

Diventa, perciò, di grande interesse ricordare, a volo d’uccello, i momenti che portarono a fare di un rudere, un centro pulsante di nuova vita teatrale e un prezioso sussidio a quel turismo culturale che è stato costantemente uno degli obiettivi perseguiti dall’Ente Provinciale per il Turismo di Latina. Il concetto di unire la trilogia “spazio monumentale-performance artistica-promozione del turismo” nacque per la prima volta in provincia di Latina sulle rive del Garigliano minturnese. Il problema non era semplice: si trattava innanzitutto di “disseppellire” un’area archeologica e di darle una qualche agibilità; poi si trattava di immettervi in forma non precaria una “istituzione” teatrale capace di fare richiamo. Mario Costa ebbe in quest’ultimo compito il prezioso sussidio di Remigio Paone, grande “guru” del teatro italiano, l’inventore della commedia musicale italiana, il gestore dei più noti teatri di Milano, il futuro Presidente del Maggio Musicale Fiorentino. Paone creò il contatto tra Costa, il regista Ottavio Spadaro, e un personaggio antico d’età e onusto di glorie teatrali, la mitica Emma Gramatica, ill cui quasi compiuto ritiro dalle scene era accompagnato dai continui ripensamenti sulla inopportunità di rinunciare alla sua bravura.

Ed Emma Gramatica, vincendo anche il peso dei molti e gloriosi anni, accettò di tenere a battesimo il rinato Teatro romano di Minturnae, accollandosi il non indifferente onere di interpretare una tragedia che, pur tratta da un grandioso scrittore classico, Euripide, veniva riletta dall’estroso Luciano Raffaele, e presentata sotto il titolo di Le Troadi.

E la rinascita di Minturno fece scalpore in sé, per l’interpretazione della Gramatica e anche per il titolo scelto per la tragedia, che, rinunciando al più tradizionale Troiane, suscitò un dibattito tra colti ,che finì per giovare al lancio del teatro. Era il 1960. Lo spettacolo era nato in anteprima assoluta, per l’organizzazione diretta dell’Ept di Latina. Seguirono in quel primo anno il primo dei diversi Miles gloriosus di Plauto che si sarebbero ripetuti nel prosieguo (ne furono interpreti Arnoldo Foà, Anna Brandimarte, Camillo Pilotto, Giusi Raspani Dandolo, regia di Giulio Pacuvio), e La commedia degli asini, pure di Plauto, con Marco Mariani, Silvio Spaccesi, Paola e Marisa Quattrini.

Prima che Emma Gramatica salisse la scena appositamente allestita, affiancata da Mario Pisu, Miranda Campa, Grazia Marescalchi, Mila Vannucci e dal giovanissimo Astianatte, che era il più che giovane, bambino Maurizio, figlio dell’avvocato Salvatore Signore, per la regia del bravo Ottavio Spadaro, trascorsero giorni di ansie, di fatiche, di preoccupazioni. Si trattava di rendere praticabile al pubblico, agli impianti tecnici, agli attori un’area desueta da millenni, un’area buona per il pascolo delle greggi, per il saccheggio dei primi ladri di reperti, ma non per la cultura.

Fu un miracolo cui collaborarono non molti ma motivati volontari, tra i quali c’era anche chi scrive queste note: sotto il cocente sole di luglio furono sfalciate migliaia di metri quadrati di rigogliose erbe, tracciati passaggi, eretti gabinetti di fortuna, istallato un trasformatore elettrico adattato, creata una piccola area di ristoro.

Ma prima ancora furono svolti i necessari lavori per il parziale restauro delle gradinate, sconquassate dai secoli, divenute cave di materiale edile: sopravvivevano pochi metri di sedili, neppure continui. E fu il primo investimento per un restauro che ha portato il teatro alle attuali dignitose e pressoché complete vesti.

Un primo, grosso investimento seguito, ma quanto faticosamente, da altri: gli interlocutori dell’Ente Provinciale per il Turismo e del Comune di Minturno infatti,  usavano rispondere alle richieste di aiuto con una sconsolante formula di stile: “Nonostante ogni migliore intendimento, al momento attuale non è possibile adottare alcun favorevole provvedimento in merito, in quanto i fondi assegnati per il settore delle opere di interesse storico-archeologico sono stati totalmente impegnati” (così il Direttore generale della Cassa per il Mezzogiorno Francesco Coscia, così anche il Ministero della P. I., così l’appena nato Ministero del Turismo).

Eppure il miracolo ci fu: nacque il cantiere, furono avviati i restauri, nacque il teatro. Mario Costa era uomo che conosceva l’arte delle relazioni pubbliche e ancora più la cocciutaggine e l’insistenza e la volontà dell’imprenditore.

Un cantiere, per la verità, che nei primi quindici anni di vita rinacque miracolosamente ad ogni inizio d’estate, perché, terminata la stagione degli spettacoli, tutto ripiombava nell’abbandono, e al giugno successivo l’area archeologica si presentava in condizioni solo un poco diverse da quelle in cui essa apparve nel 1960. Fino a quando l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Minturno-Scauri non divenne adulta e si fortificò, a farsi carico di reinventare annualmente il teatro romano furono i dipendenti dell’Ente Provinciale per il Turismo, che ogni giorno si assoggettavano a faticosi e accaldatissimi viaggi nel primo afoso pomeriggio, si sbracciavano, tagliavano erba, spostavano tavole, piantavano chiodi e avvitavano lampadine, pulivano i gabinetti, ramazzavano le gradinate, poi si improvvisavano bigliettai, controllori,  addetti alle latrine e al parcheggio.

Quanta fortuna in quegli anni, che non sia accaduto nulla di dannoso, neppure quando un distrattissimo spettatore, al termine dello spettacolo, per affrettare la sua uscita, non seguì il percorso tracciato, ma tagliò finendo in una buca per la calce (ci rimise solo le scarpe, ma ne seguì una fastidiosissima causa civile); neppure quando una sera, nel pieno dello spettacolo (e le gradinate erano affollatissime) se ne andò la corrente elettrica e non tornò che a mezzanotte. Tutti rimasero al loro posto, nel buio della campagna minturnese, appena rotto dalle lucciole che ancora girovagavano, dal canto dei grilli e dal gracidare delle rane. Cose straordinarie, notti straordinarie, nelle quali chi lavorava al di qua della scena era solidale con chi lavorava sulla scena, quando si stabiliva per ore un rapporto affettuoso e solidale, di reciproca comprensione, tra chi lavorava da una parte e chi assisteva dall’altra. Peppino De Filippo, inappuntabile nel suo completo, malgrado il calore, passeggiava nervoso in attesa che si facesse l’ora; Ernesto Calindri e Gianrico Tedeschi deliziavano e intrattenevano con la loro simpatia; Tino Buazzelli depositava il suo considerevole peso sulle gradinate e faceva circolo raccontando battute e tentando di estinguere la sua inestinguibile sete con casse di acqua minerale.

Gli attori si sobbarcavano a fatiche supplementari: si spogliavano e si truccavano dove capitava, guerreggiavano con le zanzare; poi arrivarono le cabine elettorali trasformate in precari camerini; poi furono creati i primi prefabbricati in legno smontabili, istallato un trasformatore meno capriccioso, avvitate più lampadine e soprattutto più luminose, aperta una seconda entrata (le auto che dall’Appia imboccavano l’unica entrata creavano ingorghi).

Ma laboriosa era la stessa partecipazione degli spettatori, che affrontavano, da autentici pionieri, e impavidamente – gli uomini in giacca e cravatta le donne in abito elegante – torme assetate di zanzare levantisi dal vicino fiume Garigliano, impazzite di fronte allo straordinario, inatteso banchetto che quelle braccia e spalle denudate dalla calura estiva offrivano loro; s’avventuravano fra le sconnesse pietre dell’ambulacro rischiando ogni momento di finire in un canale di scolo per l’acqua piovana: romano, sì, ma pur sempre pericoloso; sostenevano stoicamente l’estrema durezza dei sedili di pietra, fatti per i vigorosi fondoschiena dei Romani, ma assai meno compatibili con la mollezza contemporanea.

Poi, via via, le cose migliorarono, ci fu anche chi affittava cuscini per attenuare il contatto con la pietra, la bouvette divenne una cosa dignitosa, come i gabinetti. E il successo del Teatro romano di Minturnae trascinò con sé altre cose: la riscoperta dei resti del tempio di Marica, l’esigenza di ricostruire il Ponte borbonico sul Garigliano, la necessità di ridare prestigio ai molti monumenti che formano il sostrato antico della cultura minturnese. Il Teatro romano – già affiliato all’Istituto del Dramma Antico – entrò nel circuito degli spettacoli estivi, fu frequentato dalle migliori compagnie di giro, a consolazione di chi l’aveva intuito e faticosamente realizzato. Insieme e oltre ad Euripide, Sofocle, Eschilo, Plauto, Terenzio, Shakespeare, Goldoni sono stati ospitati Stravinskij e Rossini, Ravel e Verdi, in un’alternanza che un tempo faceva storcere il naso ai soprintendenti, ma che ha portato un vasto pubblico alla scoperta di una straordinaria sinergia: quella materiale, fatta di pietre antiche e di luoghi magici, e quella che s’affida alla parola recitata o alla nota che vola nell’aria di una calda notte di mezza estate.

Il teatro, gestito dall’Ente Provinciale per il Turismo di Latina dal 1960 al 1975, venne poi affidato alla giovane e irrobustita Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Paolo Graziano, che lo gestì fino a quando non lo trasferì, a sua volta, al Comune di Minturno.

P.G.S.

 

29 Giugno, 2025 - Nessun Commento

2/LATINA VERSO IL CENTENARIO
LA “POMPEI” VEGETALE

Quando tra qualche millennio scaveranno sotto la montagna di foglie che si stanno ammassando, di stagione in stagione, e che finiranno per coprire la città di Latina, soffocandola, ma preservandola per i nostri lontani posteri, si troveranno le ragioni per cui una città di appena cento anni sia stata ricoperta. Non di lava, cenere e lapilli, ma del prodotto dei begli alberi che indubbiamente possiede.

Le ragioni di tale “Pompeizzazione vegetale” sono sostanzialmente due:
–          una di carattere per così dire burocratico-aziendale
–          una per incapacità di organizzare ed eseguire le pulizie giornaliere che si fanno in (quasi) tutte le altre città d’Italia.

Ce ne sarebbe anche una terza: la disattenzione degli Amministratori. Ma, parce sepultis.

Mercoledì 18 giugno, ad esempio, verso le ore 10 del mattino si è scaricata sulla città una “bomba d’acqua”, accompagnata da violente ventate. Sembrava l’occasione giusta per cogliere – come si dice – due piccioni con una sola fava.

La tempesta d’acqua – esauritasi in una decina di minuti, ma impetuosa – avrebbe potuto prima lavare le sudicie vie e gli orridi marciapiedi di Latina, e poi spazzare la poltiglia di fango, foglie, carta, vetro, cicche di sigarette, legnami, rami d’albero, catodi e anodi che costituiscono il ricco e ormai consolidato substrato che dà forma alle strade, marciapiedi e aiuole di Latina. E invece, no. Il substrato è stato assai più resistente della tempesta meteo, tanto è vero che giovedì 19 giugno non solo sussistevano tutte le fetenti componenti della stratificazione di mondezza che da qualche
anno segnalano Latina, ma alla stratificazione si accompagnavano lunghe chiazze di acqua ristagnante a causa del tappo che detta mondezza ha creato davanti alle caditoie, impedendo il deflusso. Ma nessuno è parso interessarsi al fenomeno. Di più: le acque ristagnanti e imputridite erano marcate da galleggianti chiazze di schiuma che ribadivano la qualità e la consistenza della sozzeria che caratterizza la Latina di questi tempi. Un tempo saremmo ricorsi all’Ufficiale sanitario comunale o al Medico provinciale. Oggi, scomparse queste due figure, chi ci si deve rivolgere (in seconda istanza): alla Asl? Ma non c’è un assessore all’Igiene pubblica?

DUE AZIENDE. Ma di chi è la colpa? Non si capisce. In effetti Latina è stata capace di creare in qualche anno ben due aziende per la mondezza: una si chiamava “Latina Ambiente” ed è stata fatta fallire qualche anno fa. Sulle sue ceneri è nata una nuova azienda, che si chiama “ABC” (Azienda Beni Comuni): ebbene anche questa seconda sta per fallire. Così preavvisa la cronaca locale. Così pare confermare il Comune che si rifiuta da qualche anno di approvarne i bilanci. In questo modo il Comune paralizza la “sua” stessa azienda, dandosi la zappa sui piedi.

Sarebbe un bel primato, e sempre in mano a un certo “tipo” di amministratori. E la Città si avvia al suo destino di sepoltura. I futuri archeologi avranno, comunque, il vantaggio di poter estrarre,
col carotaggio, significative successioni di mondezza: anni Venti, anni Trenta eccetera. Sarà un bello studio.

Scopriranno, così, che mentre la Città soffriva sotto il susseguirsi di manti di immondizia stratificati in tutto il centro e il suburbio (e la gente pagava la bolletta), il suo “nocciolo centrale” (l’Isola
Pedonale, tra corso della Repubblica e le vie Diaz, Duca del Mare, Eugenio di Savoia e Pio VI) era il punto più pulito della città. Ogni mattina dalle 06-0630 vi lavoravano fino a tre autospazzatrici (medie o piccole) che pulivano le aree date in concessione a privati operatori, (che ne ricevono un gradito gratuito servizio), alcuni addetti allo svuotamento dei secchi della nettezza urbana, due o tre scopini che “rifiniscono”  la pulizia eseguita dai mezzi meccanici.

Se, invece, gli archeologi del futuro scaveranno in altri settori della Città (a Est, Nord e altre zone) scopriranno che in essi ha “lavorato” un solo camion per il ritiro della “merce” rovesciata nei
cassonetti, ma non quello che non è entrato nei cassonetti o è stato disperso dai “cercatori nei cassonetti” ( attività che ha ormai assunto il carattere di una vera e propria professione non impedita).
Ma senza alcuno spazzino. A Latina mancano, dunque, le figure professionali di Vigili Urbani  e di spazzini, che pure sono onorevoli attività benché ignorate.  Quindi, in una stessa città nella
quale tutti i cittadini pagano le stesse tasse c’è chi ha avuto il servizio e chi no.

LE AIUOLE. E chissà e gli archeologi riusciranno a distinguere i resti delle aiuole. Che non sono aiuole, ma che seguono due stagioni: quella dell’inselvatichimento da erbacce e quello della “pulizia” che mette allo scoperto tutta la schifezza che noi cittadini vi abbiamo lasciata: bottiglie, carte e soprattutto defecazioni di tutti gli animali esistenti in la città, inclusi i cittadini che lasciano quei rifiuti.

Per non parlare del risultato dell’”ultima moda” : falciare l’erba e lasciare gli sfalci sul posto. Allo scopo di arricchire l’orrenda gestione di questa Città (meglio con la minuscola: città).
(2/continua)

24 Giugno, 2025 - Nessun Commento

1/COME LATINA ATTENDE I SUOI 100 ANNI
CITTA’ INCLUSIVA? CITTA’ VIGILATA?

Gli Immigrati. Latina sta vivendo gli ultimi cinque anni prima di raggiungere l’età di 100 anni, data in cui potrebbe cominciare davvero a chiamarsi Città, non solo per abitanti, ma anche per continuità della sua comunità. Che, peraltro, si sta rinnovando proprio in questi ultimi tempi con un ritmo e una “qualità” non sempre proprio
soddisfacenti. E piantiamola, una volta tanto, di tirare in ballo gli “Immigrati” ai quali si addossano tutte le colpe possibili (sfaticati, perditempo, antiestetici, piccoli o grandi criminali, sporcaccioni, ecc. ecc.) senza far caso ai nomi italiani dei piccoli e grandi criminali e/o vandali  che commettono  reati o distruggono o danneggiano beni pubblici e privati, che poi si attribuiscono agli immigrati. E senza dimenticare che anche l’Italia “esporta” migranti. E lo fa ininterrottamente da oltre 150 anni. Verso l’”America”, l’Europa, l’Australia, e anche l’Oriente.

Latina non è una città “inclusiva” come vorrebbe far credere e come davvero essa crede quando diventa pavonessa davanti allo specchio. Agli immigrati non offre nulla ed anzi smonta le panchine sulle quali cercano di riposare nella giornata o di notte; non offre che un limitato numero di alloggi  per ripararsi dal gelo, dalle piogge invernali  o dall’afa spietata d’estate.

Non offre un punto in cui i meno fortunati possano sfamarsi con un pezzo di pane. Il Comune “delega” alla Chiesa di Latina l’onere di mantenere in vita con mense, con l’opera delle varie Caritas, con la generosità dei singoli un lavoro che dovrebbe essere tipico di una città ”inclusiva” e umana.

E si prepara in questo modo a diventare “città dei cento anni”, beneficiando anche di una legge ad hoc, deliberata  con l’evidente proposito di compiere un atto “politico” di riconoscimento di un ormai defatigante cliché che riconduce ai soliti miti di fondazione, che solo pochi si sforzano – per spirito di obiettività storica – di ricondurre entro i limiti di una operazione dovuta a chi abitava,
negli anni Venti del secolo scorso – sopraffatto dalla miseria, dalla ricerca della sopravvivenza, da una maledetta malaria, dai monopolisti della terra, dalla palude –  a soli settanta chilometri da Roma, capitale del nuovo regno d’Italia.

Una città sciatta e sporca. Ma non c’è solo questo di discutibile nel modo in cui la nostra Città del Centenario si sta preparando ai fuochi d’artificio. A chi la guarda, essa appare in abbandono, sfatta, brutta e sporca, colma di rifiuti che essa genera ma non sa smaltire, priva di Vigili Urbani (un sindaco di altri tempi, Nino Corona, sognava il “vigile di quartiere”): oggi di Vigili ce ne sono un pugno, legittimamente impossibilitati a fare tutto quello che dovrebbero fare. Eppure ce n’erano…

Che fine hanno fatto i Vigili di un tempo? Si dice che siano stati tutti riciclati dietro comode scrivanie degli uffici comunali, in quanto vittime di malattie e di acciacchi che impedirebbero loro – con
tanto di certificato medico di inidoneità al “lavoro su strada” – di adempiere al dovere per il quale essi furono assunti per pubblico concorso.  Vi pare soddisfacente per una Città che si avvia a
festeggiare i suoi primi 100 anni? Spazzini e aiuole. Ma non di soli Vigili è carente Latina. Essa ignora un mestiere, umile ma necessario: quello degli spazzini, anzi
netturbini. Se le strade sono sempre sporche, anche se passano costosi mezzi meccanici chiamati (invano) a spazzarle, non si può non parlare dei marciapiedi: anch’essi sporchi, incrostati, coperti di resti di chewing gum, invasi da erbe, scavati, scassati, immondi, pericolosi, dissestati dalle radici di alberi, devastati da buche, riparazioni mal fatte, privi delle mattonelle, pieni di buche: e chi ne ha più ne metta. Conto circa 3 spazzini per una città di oltre centomila abitanti, la seconda del Lazio. Sono tutti concentrati nell’Isola Pedonale. Alcuni anni fa ne vidi uno all’imboccatura nord di via Epitaffio. Forse si era perso.

E chiudiamo il capitolo con le aiuole. Aiuole? Ma sono fetenti depositi di escrementi di cane, di bottiglie lasciate da ragazzi, di cartacce: tutto questo non viene tolto neppure quando – circa due
volte l’anno – vengono falciate, portando alla luce questo deposito nascosto di sozza immondizia.

Ricordo che il sindaco Delio Redi (forse qualche secolo fa) emise un’ordinanza che infliggeva sanzioni pecuniarie ai proprietari di cani che non accompagnassero i loro animaletti muniti di sacchette per raccogliere lo sterco. Dell’ordinanza si sono perse le tracce nella gestione “ordinaria” di questa città. (continua)