10 Marzo, 2017 - Nessun Commento

I PIATTI ANTICHI DI GAETA NELLA RISCOPERTA DI BRUNO DI CIACCIO

la cucina di gaetaC’era una volta uno dei grandi Signori della Gaeta dell’avanzato secondo dopoguerra. Non era “signore” per nobiltà di lombi, ma per nobiltà di intelletto e di buoni gusti. Si chiamava Pasquale Di Ciaccio, amava la sua terra come forse oggi non la si ama più; e amava tutti coloro che amano la propria terra, col rispetto dovuto, senza polemiche di campanile ed anzi aiutando le altrui ricerche locali. Pasquale Di Ciaccio era, a sua volta, studioso ma ancor più “raccontatore” del suo Paese, Gaeta, con una connotazione speciale: lui amava ricordare non solo i grandi Eventi di cui è ricca la storia di Gaeta, e non solo le splendide cose che la cultura di tutto il sud provincia di Latina e il nord della provincia di Caserta hanno concentrato in Gaeta quando si svilupparono le invasioni saracene che avrebbero annientato Formia fino a farle perdere lo stesso nome. In quegli anni tragici, le popolazioni vicine e meno vicine si raccoglievano e difendevano dietro le mura di Gaeta, in cui portarono ricchezze e cultura da sottrarre alle predazioni. Pasquale Di Ciaccio amava raccontare soprattutto il modo di vivere dei suoi conterranei, il senso della vita comune, delle piccole e grandi abitudini, del modo di vivere dei grandi e meno grandi livelli della società gaetana. Sono personalmente legato ad un libro che pubblicò quando era ancora pieno di forze e di sentimenti: si chiama “La luce blu” e ricorda quel mondo un po’ chiuso di una Gaeta ancora isolata, perché la Flacca non l’aveva ancora aperta a tutti; racconta con grande delicatezza, con grande sensibilità e in punta di penna la vita di ogni giorno, di S. Erasmo e di via Indipendenza, del Borgo e della Piaja.

Questo come introduzione ad un altro Di Ciaccio, che si chiama Bruno e che, con disperazione del papà, non amava le stesse cose che amava Pasquale, ma preferiva la vita più reale e concreta che doveva ancora vivere, un po’ distaccato dai sogni di Pasquale. Bruno Di Ciaccio, figlio di Pasquale, si è preso una rivincita ora che, da pensionato, avendo vissuto una vita di grande dignità e soddisfazione, può dedicarsi anche lui ad esplorare il mondo al quale si riferiva il padre, quel mondo locale fatto di cose piccole e grandi e ben connotate. E si è rivolto ad un campo che coniuga l’amore per il natìo loco alla concretezza e al realismo della vita vissuta tutti i giorni. E’ nato, così, un bel libro che colma una buona parte di lacune nel settore della gastronomia del Golfo di Gaeta (ma Bruno Di Ciaccio la chiama orgogliosamente “La cucina di Gaeta”). E’ un libro che si presenta molto bene dal punto di vista editoriale e che appare subito elegante e pratico nel descrivere le ricette di un tempo che non è passato, perché viene riscoperto di continuo nel fiorire di iniziative che indagano la buona tavola anche antica. Gaeta un tempo era la città dei militari e dei “signori” che abitavano la città medievale; e la città dei pescatori e dei contadini che non potevano abitare dentro le mura, perché i loro orari di lavoro (la sera per la pesca, l’alba per coltivare i fazzoletti collinari che circondano Gaeta dalle sue colline), in quanto le porte della piazzaforte venivano chiuse quando suonava l’Avemaria e riaperte quando il sole era già sorto: quei pescatori e quei contadini, dicevo, scelsero di creare le loro case fuori delle mura. E piano piano nacque un rione (assurto anche alla dignità di Comune per una trentina di anni, col nome di Elena, prima di essere riaggregato a Gaeta). Il rione era chiamato semplicemente la Spiaggia o la Piaja e crebbe attorno ad un rettilineo che oggi è via Indipendenza, a ridosso del mare percorso un tempo da corso Attico. Qui nacque la nuova cucina gaetana, cucina povera o meglio ancora, cucina semplice, fatta dei prodotti della terra che si sottraevano al mercato e dei pesci che non venivano acquistati dai signori. E qui nacque la tiella, una pizza rustica che oggi è emblema gastronomico di Gaeta, così come nacquero una serie di pietanze “povere” che oggi gli chef riscoprono e i turisti richiedono sui menu a pagamento. La rivincita di una società antica su quella moderna che deve servirsene. Bruno Di Ciaccio ci ha così regalato un libro che contiene un’apertura che spiega come questo libro sia nato; che rievoca le atmosfere di un mondo riemerso dal passato; e che illustra, fotograficamente e nel dettaglio delle componenti, degli ingredienti e delle modalità di cottura una serie di piatti gustosi, appetitosi, sani, genuini e soprattutto moderni, nel senso più pieno di questa parola. Non occorre elogiare questo libro: chi scrive si è divertito a leggerlo e si divertirà di più quando riuscirà a tradurlo in portate da gustare e far gustare. E’ solo un libro da avere in casa.

6 Marzo, 2017 - Nessun Commento

I PRIMI 60 ANNI DEL RISTORANTE DI FRANCO CHINAPPI A FORMIA

Il ristorante Chinappi di Formia compie i suoi primi 60 anni e festeggia nel modo in cui sa fare, con la sua cucina fatta di prodotti locali, valorizzati dalla sapienza culinaria e dall’amore per un mestiere che è anche arte.

Nel quadro di un’ iniziativa volta alla diffusione della conoscenza dei prodotti tipici di maggiore qualità del territorio sud pontino, la giornalista esperta nel settore, Tiziana Briguglio, ha accompagnato una selezione di giornalisti e di esperti in una ricognizione a Gaeta e a Formia che si è conclusa proprio con il gioioso ricordo dell’inizio di attività di una delle maggiori aziende della ristorazione, segnalata nelle migliori guide nazionali, quella che va sotto l’ormai celebrato nome di Chinappi di Formia. Il titolare, Franco Chinappi ha festeggiato i primi 60 anni del suo ristorante, che costituisce un esempio di evoluzione positiva di una iniziativa  avviata sul territorio, quella di una pizzeria divenuta presto un tempio del buon gusto strettamente fedele alle proprie tradizioni culinarie fondate soprattutto sulle  buone pratiche di cottura del pesce, senza dimenticare un omaggio alla pizza croccante che resta sempre un segno distintivo inconfondibile.

Franco Chinappi è un personaggio straordinario, “prodotto” da una antica panetteria avviata dal padre e che ha sentito il bisogno di differenziarsi pur restando sempre nel mondo della preparazione di cibi. La sua pizzeria è presto divenuta ristorante e il ristorante è diventato un marchio di fabbrica. E ora il marchio di fabbrica ha prodotto per gemmazione un proprio pianeta, affidato alla inventiva di Stefano Chinappi, figlio di Franco, ottimo conoscitore di vini, che ha fatto la scommessa di aprire a Roma un ristorante che porta lo stesso nome di quello di Formia. E ha vinto la scommessa.

La cerimonia di ieri, domenica 5 marzo 2017, è stata solennizzata dalla presenza del sindaco di Formia Sandro Bartolomeo, che ha donato a Franco Chinappi e alla sua Signora Anna, anima della cucina, due targhe: una dell’Amministrazione e una sua personale, a ricordo di questi primi 60 anni.

9 Febbraio, 2017 - 1 Commento

LA GIORNATA DELLA MEMORIA

Il monumento nel Campo di Birkenau

Il monumento nel Campo di Birkenau

Il 27 gennaio scorso si è celebrata presso la scuola Alessandro Volta di Latina una giornata di ricordo delle stragi naziste, quella Giornata della Memoria che sa ritrovare, come questa volta, una capacità espressiva che è il frutto dell’interesse degli insegnanti e della capacità degli alunni di immedesimarsi. Confesso – non temo sorrisetti – che mi sono commosso e che ho sentito il bisogno di mandare un messaggio ai nostri Fratelli Maggiori israeliti attraverso una amica che conosco da tanti anni e della quale sono orgoglioso di essere amico. Si chiama Claudia Terracina, romana, con un nome che più ebreo (pontino) non si può, la cui Famiglia ha pagato il suo prezioso contributo alla Shoah, valorosa giornalista, piena di interessi, di intraprendenza, di voglia di vivere.

La consideriamo in casa una di noi e lei ci ricambia questo sentimento con altrettanto affetto. Questo vuole dire che la Giornata della Memoria mi ha coinvolto, anche se è una questione che può interessare me e la mia Famiglia e può non interessare, e forse annoiare, gli altri. Ma è difficile parlare di memoria, se non si ha la nozione dei fatti, Ed è una nozione che si acquista solo attraverso l’esperienza. Di esperienze ve ne sono almeno tre da percorrere: la visita ad uno dei luoghi di sterminio – Auschwitz è diventato il simbolo, ma non è il solo; la lettura attenta delle migliaia di testimonianze che sono state lasciate (da Annah Arendt allo sconosciuto Rinaldo Rinaldi, mio amico di Cisterna, che ormai ci ha lasciati, e che ha taciuto la sua esperienza di internato e di sopravvissuto in diversi campi nazisti: ha taciuto anche lui per 50 anni, poi ha trovato due bravissimi suoi amici, insegnanti, che ne hanno raccolto i ricordi, trasformandoli in uno splendido libro); e, infine, provando ad ascoltare qualche testimonianza, meglio diretta ma anche indiretta.

Io ho avuto la possibilità di percorrere tutti e tre questi passaggi: ho visitato Dachau, non distante da Monaco di Baviera, in una splendida e gelida giornata di sole, col vento che frustava i nostri corpi riscaldati dai soprabiti e dalle molte calorie di cui avevamo beneficiato in albergo. Quel giorno soffrii il freddo nell’ora che impiegammo per una rapida visita ed ebbi una percezione di ciò che dovettero soffrire gli internati, gli hopeless, i senza speranza che, vestiti di un leggero pigiama da recluso e privi di qualsiasi alimentazione lavoravano nel freddo inverno tedesco e dormivano nelle squallide baracche di legno, Ho letto decine, forse qualche centinaio di libri, che mi apparvero all’inizio come un racconto di Lovecraft, e che mi divennero familiarmente angoscianti. Ma non ci si può permettere il lusso dell’angoscia di fronte a quei patimenti. Infine ho avuto modo di ascoltare la vita vissuta in diretta dai lager attraverso alcuni amici e conoscenti che fecero l’esperienza di Mauthausen e di altri campi e che rientrarono a piedi da quei luoghi, miracolati, anche se ridotti a carte veline; e ho sentito i familiari di Claudia Terracina che ancora vivono il terrore e il dolore di quel 16 ottobre 1943, il giorno della grande retata di ebrei romani.

Ho avuto anche modo di ascoltare dal giovane Mario Costa di Formia, poi senatore della Repubblica e sottosegretario ai problemi del lavoro, l’ “inventore” della Università di Latina, i racconti di quel “campo climatico” (così lo chiamavano gli stessi protagonisti) che fu aperto a Formia, sulla costa di Giànola, per agevolare l’Exodus verso Israele di coloro che si erano salvati; ed ho ricevuto testimonianze scritte da chi, lavorando nei cantieri Orlando Castellano di Gaeta, ormai chiusi, cooperò da dipendente alla rimessa in mare di pescherecci e imbarcazioni da diporto che trasportarono ebrei smunti e consunti sulle coste della Palestina.

Sono cose note? Certo che lo sono, ma non a tutti. Anzi, poiché gli anni sono passati e le manifestazioni a volte sopiscono il senso della tragedia, riducendolo ad opaco rituale, quelle cose non vanno dimenticate e chi è abbastanza giovane da non averle viste che sui libri, farebbe bene a leggerne altri, quanti più ne può. E a permettersi una visita a Birkenau, a Dachau (due paesi pontini si sono gemellati: Fondi con Dachau e Cori con Auschwitz). Non per soffrire, ma per capire.

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