27 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

UN CONVEGNO PER NICOLOSI
E UN PAIO DI DIMENTICANZE

INGLESI IN JEEP ALLE CASE POPOLARI LITTORIA

LATINA – Giuseppe Nicolosi, l’architetto al quale la Casa dell’Architettura di Latina ha dedicato un doveroso ricordo, presentando una silloge dei suoi scritti curata da Luca Arcangeli, torna periodicamente all’attenzione grata della “città nuova”, nella quale ha progettato il primo nucleo organico di abitazioni “popolari” (oggi si direbbe di edilizia pubblica, per via della democrazia che è arrivata nel frattempo). In effetti, quel blocco di case realizzate da quello che all’epoca si chiamava I.C.P. (Istituto Case Popolari), a prescindere dalla filosofia edilizia fascista che lo ispirava (poi accennerò come) è un bell’esempio di idea compiuta e di ordinato insediamento. E anche di bella fantasia, perché, senza arrivare alle case della romana Garbatella o dei ridossi del Lungotevere, gli edifici dedicati al “popolo” un tempo erano molto più dignitosi e decorativi delle scatole che, generalmente, si realizzano oggi. Il problema, semmai, è come quell’ordine e quella fantasia si sono ridotti oggi, a distanza di poco più di settant’anni, rispetto ad altri edifici di edilizia pubblica realizzati, sempre a Littoria, da Incis e Ina. Il confronto li fa sfigurare, per varie e diverse ragioni, ma anche per il fatto che l’IACP, nel frattempo subentrato all’ICP, non è stato in condizioni di orientare l’uso di quella piccola “città-giardino”, consentendo una serie di alterazioni o l’abbandono del verde, che hanno sfigurato quel bel quartiere. Ci aveva già pensato la guerra (guardate questa fotografia che viene da Londra: una jeep americana pilotata da britannici, con tre bambini ex-littoriani che aspettano le “caramelle col buco”: guardate il fondale, che è un bel palazzo del “quartiere Niocolosi” e vi vedrete sopra i segni della guerra passata). Oggi non è molto diverso da allora. Mi ero impegnato a spiegare la filosofia di quel quartiere: esso si ispirava al rigoroso ordine gerarchico sul quale il fascismo era fondato, e che presupponeva che nulla dovesse spostarsi nella piramide sociale, a cominciare dalle case e dalle fabbriche. Nelle fabbriche (a Carbonia, ad esempio) c’era un ingresso per i dirigenti ed uno per tutti gli “altri”: guai a confondere le classi sociali, a mescolarle, chissà che poteva succedere: nell’edilizia abitativa c’erano i villini per i dirigenti, le case di un certo costo per i funzionari, e le case ridotte al minimo per tutti gli “altri”. Una rigida gerarchia dei materiali edilizi, dai matrmi ai mattoni cotti; dal cemento armato alla calce impastata con la pozzolana. Non invento nulla, leggo i libri d’epoca che sottolineano la “necessaria” diversità.

Tornando, invece, a Nicolosi, ed avendo partecipato al convegno (7 dicembre scorso, ex Garage Ruspi), debbo confessare di non aver apprezzato una mancanza di memoria, e mi spiego: quando Nicolosi non si sapeva neppure che fosse un ingegnere e le “case popolari” non erano che il poco nobile biglietto da visita all’ingresso ovest (Roma) di Littoria-Latina, una studiosa locale che si chiamava Laura Onorati scrisse uno dei primi libri-ricordo sulla nascita della città capoluogo. Lo fece da architetta qual era e, quindi, si dedicò anche a riconsiderare quelle “case popolari” che sembravano non “azzeccarci” proprio con gli splendori razionalistici (oggi spariti) di Littoria-Latina. Ne fece una prima analisi che suscitò qialche sorpresa, qualche ohibò! un po’ schifato, ma che oggi viene ignorata, forse perché fu la prima. E c’è stato un altro studio dedicato più da vicino a Giuseppe Nicolosi: ne è autrice un’altra architetta, Anna Casalvieri che, guarda caso, non apparteneva affatto alla destra intellettuale pontina, anzi, al contrario. Eppure seppe analizzare, a sua volta, il contributo di Nicolosi con grande lucidità ed imparzialità. Anch’ella è stata dimenticata nel convegno. Vero: era un convegno su Nicolosi e i suoi scritti, non sugli scritti degli altri che avevano “riconosciuto” Nicolosi per primi. Ma Nicolosi ha meritato quel convegno anche grazie alla riscoperta fattane da due studiose quando nessuno sapeva chi era.

21 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

IN MORTE DI ROMANO ROSSI

Il mio primo incontro con Romano Rossi fu, forse alla fine degli anni Cinquanta, allo stadio di calcio di Formia, che sarebbe stato intitolato al grande Nicolino Perrone. Io facevo il giovanissimo reporter sportivo per Il Messaggero; lui l’arbitro della partita di cui dovevo riferire. Gli arbitri, com’è noto, da noi svolgono un mestiere difficile, almeno come quello del CT della Nazionale di Calcio ed altri due o tre “mestieri” tosti. A sud, poi, è anche peggio. E, invece, quella “giacchetta nera”, che già cominciava a trascinarsi dietro la bella struttura fisica di cui era dotato, facendolo con agilità e grande consumo di energie, su e giù per il campo, ottenne un grande successo. Fischiava che si faceva sentire da giocatori e spettatori; e agitava le braccia e il corpo per spiegare di che genere di fallo si trattava in un modo che sarebbe apparso teatrale, se non fosse stato estremamente efficace, oltre che chiaro. Ricevette inattesi applausi dagli spettatori, e credo che sia stata l’unica occasione di questo tipo che mi è capitata. Poi ci siamo fatti grandi entrambi, e ci siamo rincontrati a Latina, dove Romano Rossi era il capo della redazione provinciale de Il Tempo, in cui rimase per anni con successo; ed io, appena arrivato nel Capoluogo, dopo aver vinto un concorso – era il 1962 – ebbi anche la ventura di essere nominato dal mio giornale (Il Messaggero) capo della Redazione provinciale, in sostituzione di Fortunato Ruotolo che aveva deciso di ritagliarsi un angolo giornalistico meno ingombrante nello stesso giornale. E poiché all’epoca, a Latina, Il Tempo e Il Messaggero si disputavano lettori a suon di scoop (visti da una parte) e di “buchi” (visti dall’altra parte), tra Romano e me nacque una sana competizione giornalistica che combattemmo per tanti anni, nel pieno e reciproco rispetto e stima. La scomparsa di Romano Rossi è, perciò, una perdita per Latina, perché, anche dopo essersi ritirato, era rimasto giornalista nella curiosità che lo animava, nell’attenzione ai dettagli e ai retroscena, nel sorriso sornione che uccideva tutte le cose che sembravano inutilmente “tragiche”, nel mantenere l’amicizia da compagnoni che abbiamo sempre avuto. Ciao Romano, ci dispiace che tu ci abbia lasciati, ma conserviamo di te un felice, bel ricordo.

 

 

18 Dicembre, 2013 - Nessun Commento

IL VESCOVO CROCIATA E’ DIVENUTO “PONTINO”

Il nuovo vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze e Priverno, monsignor Mariano Crociata ha preso possesso della sua nuova sede, compiendo una sorta di pellegrinaggio dalla porta nord (il santuario di Santa Maria Goretti, a Le Ferriere di Conca), attraverso la cattedrale di San Marco (una breve sosta) e fino alla chiesa del Sacro Cuore, adiacente alla Curia vescovile, scelta perché in grado di accogliere un maggior numero di fedeli. Accolto dai suoi nuovi amministrati, accorsi numerosi, monsignor Mariano Crociata ha celebrato messa ed ha ricevuto il pallio, segno del potere vescovile, dalle mani del suo predecessore, monsignor arcivescovo Giuseppe Petrocchi, che ha lasciato la diocesi pontina dopo ben 15 anni di permanenza fruttuosa e ricca di colloquio. La sintesi del suo sacerdozio pontino è simbolicamente e magistralmente rappresentata dal libro che ha raccolto gli atti del Sinodo diocesano, che ha il titolo Perché la nostra Chiesa sia “più-Una”, Libro del Primo Sinodo della Chiesa pontina (2005-2012).