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5 Marzo, 2022 - 2 Commento

60 ANNI DI RESIDENZA A LATINA

M1.VIA DUCA DEL MARE FINE ANNI 50

La notizia che segue non interesserà nessuno, al di fuori del sottoscritto. Ma questo è un blog dichiaratamente personale, e, quindi, lo uso come una sorta di diario pubblico. La notizia è questa: sono arrivato a Latina il 1° marzo 1962, e perciò sto festeggiando i miei 60 anni di residenza in questa Città. Venivo da una città di mare (Formia, ma ero nato a Cisterna) e, quindi, il mio primo impatto con Latina è stato alquanto soffocante. La mattina, dove abitavo prima, mi svegliavo e vedevo il mare nella sua quiete o nella sua inquietudine, ma dietro il mare c’era l’orizzonte. Ossia, non c’era confine. Per lo sguardo e per la mente. A Latina, invece, dove alzavo lo sguardo vedevo muri, cioè confini, limitazioni, metafore della solitudine e dell’egoismo. Poi, dopo alcuni “giri di Peppe” consumati per imparare i primi luoghi, mi sono abituato.

Oggi alcuni di quei luoghi non ci sono più: il negozio di articoli e impianti elettrici di Massarella&Ciofi, La Casa Veneta del Tessuto (in sintesi: la Casa Veneta), l’Agenzia dell’Atal (oggi Cotral, ma è un’altra cosa) col buon Lucedio Melegari, sempre elegantissimo, dai baffetti alle scarpe, la Libreria Raimondo, per anni punto di riferimento della intellighenzia latinense, di qualsiasi partito. Vi incontravi – oltre al proprietario  Raimondo, beninteso – Tommaso Stabile e Angelo Tomassini, l’uno ex-repubblichino, l’altro socialista e filosofo scientifico; vi incontravi poeti come Luigi Marafini, che per hobby faceva anche l’avvocato; giovanissimi intellettuali come Ennio Di Rosa, e vi trovavi, meno frequentemente, un molto sorridente Ajmone Finestra, anche lui ex-saloino, docente, e poi anche grintoso scrittore. La tregua nella libreria Raimondo fu poi rotta dall’arrivo di una sorta di guerriglia urbana elettorale tra missini e comunisti.
C’è una documentazione ancora vivace. E qualcuno dei protagonisti ancora sopravvive. C’era (e c’è) l’eterno e piacevole “Mimì”, nato insieme alla Città. E poi c’era anche il primo “Buffetti”. Io ero ancora molto giovane e non ancora sposato. Mi sarei tolto, molto felicemente, il pensiero tre anni dopo e avrei messo su una bella Famiglia. Ne sono orgoglioso (questo non riguarda solo me). Non si parlava ancora di camorra o mafia nostrana, si smaltivano gli ultimi ricordi del dopoguerra (Palazzo M e la ex Gil, poveri resti di una disumanità che stiamo rivivendo negli Ucraini aggrediti e ammazzati e distrutti da Putin. Ma c’era già un primo pezzo di via Milazzo, che
nasceva spontaneamente a “Shangai”, attraverso una serie di bassi fabbricati, quasi tutti rigorosamente abusivi, poveri ma tollerati e ordinati lungo il marciapiede. C’era quel piccolo grande miracolo del dopoguerra che fu Villaggio Trieste; e, accanto ad esso, il Centro Profughi “Rossi Longhi”, che accoglieva contestatori del regime staliniano e della sua invadenza nell’Europa dell’Est, e profughi dai Balcani di vario genere. E c’era già uno dei miei figli che mi pregava di non dargli le 50 lire per la colazione (mancavano gli snacks), perché, tanto, gliel’avrebbero prese due o tre compagni di scuola, definiti da lui “i figli degli zingari”. Noi li avremmo conosciuti molto meglio col nome e cognome del clan, e con i conseguenti problemi, che ormai segnavano una Latina già “adulta” e più malandata di quando arrivai.

Nessuno pensò a ricostruire la torre che si innalzava alle spalle della Emme dell’omonimo Palazzo: era un ricordo che nessuno (quasi) voleva che si rievocasse anche nella sua materialità. Meglio distrutta, e le macerie abbandonate da qualche altra parte. Dicevo “quasi nessuno”, perché in Consiglio comunale c’è sempre stata una pattuglia di esponenti del MSI, che era il partito derivato da coloro che ci avevano portato in guerra,  e che costituiva la dimostrazione di cosa si intenda per Democrazia. “Loro” (i predecessori del Msi) non ne capivano nulla di Democrazia, come è noto a tutti tranne che a quelli che ancora si affacciano da quelle sponde senza aver mai letto un Bignami di storia contemporanea e di storia della guerra fascista. Ma qui mi fermo.

Feci presto a scoprire che se non ricostruivano la torre di Palazzo M, c’erano tanti che volevano costruire, comunque, qualunque cosa. Ci provò anche la Ditta Grassetto di Padova, all’epoca un gigante, che presentò un piano di lottizzazione che avrebbe trasformato Fogliano in una periferia urbana di 20 mila abitanti. Grassetto ebbe la sfortuna di incontrarsi con giornalisti e architetti che non avevano paura di nessuno e che scatenarono una campagna che ridicolizzò un Consiglio comunale molto connivente verso il gigante Grassetto. Gli architetti si rifiutarono di firmare il Piano regolatore e così la cosa finì come doveva. Nel cestino dell’immondizia. Poi ci provò qualcun altro: era stato appena scoperto il giacimento termale (di Fogliano, anche se non era Fogliano) che quasi subito venne proposto al Comune un piano per la valorizzazione termale. Ma non era una valorizzazione termale, era una minicittà di casette ”per vacanze”. Insomma, una mega-lottizzazione. Non se ne fece nulla, per fortuna. Ma nacquero i Palazzi Barletta che introdussero il gigantismo nell’edilizia. Poi venne il Piano regolatore che si fondava su una previsione di incremento demografico che giustificava la “nuova Latina” dei quartieri Q1, Q2 e via contando. Poi vennero anche momenti in cui Latina perse la sua verginità a colpi di scandali, di
clan, di inchieste, fino alla DIA che consacrò la Città una periferia di malaffare.

Oggi festeggio i miei 60 anni di residenza a Latina con un po’ più di orgoglio di ieri, ma sempre con la camicia gelata. Ci siamo (quasi) liberati dei nuovi re malavitosi. Ma all’uscio ce ne è sempre qualcuno che suona il campanello. Auguri Latina e ai miei 60 anni di residenza.

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